Rispondendo a una domanda di Julie Crenn

Ecco un’anteprima, in italiano, del mio contributo all’articolo di Julie Crenn, presto disponibile in francese, sulle opere esposte durante la mostra « Ligne de front »:

« Secondo lei cosa significa la commemorazione della Prima Guerra Mondiale oggi e come il suo progetto partecipa alla sua vitalità ? »

La Prima Guerra Mondiale nasce con il concetto di modernità, con una fede cieca nel progresso e in un mondo nuovo che sarebbe nato proprio dall’apocalisse, dalla tabula rasa del conflitto globale. Penso che oggi, in questi tempi di crisi, rileggendo il passato, possiamo apprendere dal grave errore di quest’utopia: non c’è nessuna catastrofe che possa essere salvifica, né alcun progresso che possa essere tale senza il rispetto profondo e attento per la vita sull’intero pianeta. Il lavoro di memoria sulla Grande Guerra può avere senso solo se attraverso il passato siamo in grado di interrogare in modo critico il presente.

Quando ho iniziato a lavorare al mio film “In Limine” per la mostra “Ligne de Front”, sono partita ponendomi delle domande molto semplici, come ad esempio: “Perché la guerra esiste ancora oggi malgrado tutti i discorsi sulla pace e le commemorazioni? A cosa serve la memoria se continuiamo comunque a fare altre guerre? Sarebbe forse meglio non ricordare affatto?”

E’ chiaro che la guerra non è opera dei singoli. Certamente il male è dentro ognuno di noi ma le guerre, in quanto tali, riguardano i gruppi di individui, esse coinvolgono la psiche collettiva, vengono fatte dalle società, dai popoli, dalle nazioni. Le guerre sono spesso una questione di identità collettiva, la “Linea del fronte” non sempre è una trincea scavata nel suolo ma spesso è un confine identitario immaginario che ci divide dal resto del mondo e che ostacola in noi il formarsi di una coscienza planetaria.

Commemorare un conflitto come la Prima Guerra Mondiale che fu una guerra principalmente di nazioni, a mio parere, oggi ha senso solo se relativizziamo il concetto di Patria e di nazione al nostro presente, alle nostre città multietniche, al nostro modo di vivere cosmopolita. Facciamo parte di un mercato globale e viviamo nel villaggio globale attraverso i media, il nostro tempo ci invita a riflettere sul fatto che la nostra vera patria è il Mondo.

Le commemorazioni spesso obbediscono a un’ideologia della memoria, che serve per glorificare i morti in modo da convincere i vivi ad arricchire le fila di chi sarà disposto a morire ancora. In questo senso sono contraria alle commemorazioni, come sono contraria anche all’ipocrisia e alla retorica sulla Pace.

Nel mio film, “In limine”, cito una frase di James Hillman, tratta dal suo celebre libro “Un terribile amore per la guerra”, è una frase che dice “La guerra fa parte della nostra anima in quanto verità archetipica del cosmo”.

Ho riflettuto molto su questa frase, se la guerra esiste da sempre è probabilmente perché è uno dei cosiddetti universali antropologici. Non la si può eliminare, si può solo cercare di contenerla, di rallentarla, di limitarla.

Come dice ancora Hillman “La guerra chiede che le sia dato un senso”, a questo proposito credo che siano importanti le commemorazioni e il lavoro di memoria per creare una conoscenza e una coscienza sulla guerra. Eliminare la parola guerra dal linguaggio, sostituendola con espressioni come, ad esempio, “missione di pace” non ci aiuta a dare un senso alla guerra ma la rende qualcosa di astratto, di lontano, che ci deresponsabilizza e ci spinge a delegare ogni discorso e ogni scelta sulla guerra a chi ci governa e a chi ha scelto la guerra come mestiere.

Attraverso il mio progetto sono andata alla ricerca del senso, mi sono chiesta il perché della memoria e come fosse possibile creare un discorso sulla memoria della guerra in un linguaggio che fosse contemporaneo, lontano dalla retorica e che non sfruttasse materiali d’archivio già esistenti. La sfida è stata particolarmente ardua perché il mio lavoro partiva da una storia in particolare, quella del “Cristo delle trincee”, che è anche un’immagine, una cartolina d’epoca del dopoguerra che è diventata una sorta d’icona.

Quella del Cristo delle Trincee è una narrazione che il tempo e la storia ufficiale hanno totalmente cristallizzato. Questa statua caduta da un calvario distrutto dai bombardamenti, a Neuve-Chapelle, fu raccolta dalle truppe portoghesi, nelle proprie trincee, che la usarono come oggetto apotropaico. Fu ritrovata dopo la guerra e fu riposta nel suo luogo d’origine, ai piedi di un nuovo calvario, dove restò per 40 anni. In seguito, il governo portoghese la chiese al governo francese per farne un monumento nazionale, in memoria dei militi ignoti.

Mi sono chiesta, al di là della retorica patriottica che associa il sacrificio del Cristo a quello dei soldati, che cosa significasse questo simbolo. Ho scoperto che innanzi tutto poteva essere un paradigma del bisogno di narrazione che si cela dietro le date e le statistiche così poco empatiche del linguaggio storico.

La Grande Storia si nutre di piccole storie. Gli oggetti e i luoghi di memoria sono i veicoli di queste storie di cui abbiamo bisogno per stabilire un contatto profondo con il passato. Come è scritto all’inizio del mio film: « Nel corso del tempo, oggetti e luoghi continuano a parlarci come noi gli parliamo. Quando la ferita diventa meno dolorosa e comincia la sua cicatrizzazione, lo spazio della memoria non ci parlerà più nello stesso modo, avrà inghiottito il tempo, il nostro tempo che noi gli riversiamo intorno durante ogni rito, cerimonia o passaggio privato e ci domanderà di parlare ancora e di essere ascoltato altrimenti ».

Realizzando il mio progetto mi sono messa in ascolto dei differenti luoghi di memoria legati a questa narrazione. Ho scoperto che attorno alla storia del Cristo delle Trincee c’erano diverse soglie di memoria ed soprattutto di questo che parla “In Limine”, il cui titolo significa appunto « sulla soglia ». Comprendere che la memoria non era solo quella della Grande Storia, che monumentalizza e cristallizza i racconti, ma che essa è costituita da differenti livelli, è stato per me l’inizio di un processo che mi ha permesso di stabilire un dialogo attivo con questa narrazione.

Dapprima sono andata sulle tracce della memoria fisica passeggiando tra le rovine dei bunkers tedeschi e tra i cimiteri militari. In seguito, ho cercato delle tracce emozionali. Sono andata alla ricerca delle persone e ho trovato con esse dei ricordi privati che mi hanno orientata sul tema del lavoro del lutto.

Ho cominciato a sentire che la memoria era vibrante, viva; ho potuto risuonare con essa stabilendo una relazione creativa. Ciò mi ha permesso di agire, in fine, su un piano estetico, ricreando l’immagine del Cristo delle trincee nel presente, arrivando finalmente a rispondere, con il mio lavoro, a questa voce del passato.

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